Bruno Breggion
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Dal mio paese al suo ci sono circa tredici chilometri e io là c’ero stato spesso, fin da bambino, per via di certi zii paterni che ci vivevano da sempre. Passavo molte vacanze da loro. Ma in quella preistoria, non conoscevo Danilo. Fu più tardi che lo conobbi. Quando, deciso a tutti i costi a studiare pittura, cercai nella zona tutti quelli che studiavano o facevano dell’arte. Così, un giorno, con la mia bici andai ad Agna per conoscere Danilo. Ricordo la sua casa: mi pare rosa e tanto sole. Una specie di rientranza (esterna?) dove lui aveva dipinto, sulla parete, una scena rinascimentale con personaggi in costume e un cavallo bianco – perfettamente disegnato e modellato, da scultore – ma che io trovai troppo bianco, gessoso. Non c’era il tono – quello della grande pittura veneta – che era già una mia malattia. Ne parlammo, sereni; lui era, senza dubbi, scultore. Vidi anche alcune sculture che mi piacquero molto. Mi diede dei consigli per la scuola che gli dissi di voler fare. Parlammo di difficoltà logistiche, economiche e di sostentamento e diventammo amici.
Ebbi di lui una visione globale assai positiva. era già bravissimo. Era già evidente in lui quella che io chiamo felicità tattile, del grande modellatore. E quella inesauribile invenzione compositiva che gli ho sempre invidiato e che, secondo me, era la sua più grande dote. Tale, in alcuni casi, da superare qualcuno dei suoi maestri. Fu certamente uno dei migliori allievi di Arturo Martini, maestro suo, oltre che di tutta la nostra generazione e del quale aveva colto appieno lo spirito.
Quando fui alla “Pietro Selvatico” di Padova lui aveva già finito e cominciato a Venezia. Ma di lui rimanevano disegni, studi a matita di bassorilievi in gesso risolti con grande personale gusto e sicurezza esecutiva. Poi venne la guerra anche per noi e dovemmo sospendere gli studi. Ma era destino che ci dovessimo ritrovare.
Avvenne che i tedeschi ci mandarono al Gorzone (piccolo fiume ai confini col Polesine) poco distante da casa sua e molto di più dalla mia. Strada che si doveva fare tutti i giorni in bicicletta. Il lavoro di pala che facevamo per trasformare l’argine in linea anticarro era duro. Ma durò poco. Una mattina arrivo sul posto e vedo Danilo che, con una grande squadra di legno, un po’ aperta, finge di controllare l’inclinazione dello scavo dell’argine. Il giorno dopo anch’io avevo la squadra e quando si avvicinava un Tedesco ci trovava (gut!) intenti a controllare. Poi fummo promossi. Danilo ebbe l’incarico di pagare gli scavatori (ricordo un motocarro con lui su e rotoli di soldi a metro che si dovevano tagliare con le forbici per diventare banconote). Ce ne fossimo tenuto un po’ avremmo avuto meno fame dopo. Io invece rimasi al mio paese a controllare gli scavi di torba combustibile, un po’ per i Tedeschi e un po’ per i civili. Non ricordo se ci vedemmo ancora fino alla fine della guerra. Finalmente finì e ci trovammo subito a Venezia ai “Carmini”, dove trovai di lui, cose che ancora ricordo: come un putto in terracotta che Wenter Marini, direttore dell’istituto d’arte, aveva messo in bacheca tra le cose migliori dei migliori allievi. Di una modernità che non avevo mai visto. Una tale sintesi che, secondo me, aveva portato il vecchio putto dei Serpotta e dei Tiepolo a valori plastici e formali assolutamente nuovi.
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Poi si diplomò e passò all’Accademia a contatto con i maestri delle idee: Martini (che nel ’47 morì), Viani, Minguzzi (che divenne suo grande amico), Crocetti. Ci si vedeva spesso in quel tempo o all’Accademia o all’Istituto e, sempre, da “Oreste” per la quotidiana zuppa di bisi sechi.
Finalmente a studi finiti, cominciò la sua nuova storia: prima povese e subito bassanese. Di nuovo fu destino che, per latri motivi immigrassi anch’io a Bassano e fu così che restammo sempre assieme; in ogni occasione che riguardasse sia le comuni amicizie che i comuni interessi culturali e professionali, inserendosi nella vita della città – lui più di me. Con il nostro attivismo ed entusiasmo, vitalizzando, assieme ad altri come: Carotti, Pavan, Verenini, Pianezzola, Bonaldi e, più tardi altri ancora, un ambiente in quel tempo assolutamente amorfo agli effetti dell’arte. Il resto è cronaca nota, ormai tanto lunga da potersi definire storia. Mi rattrista sempre il pensiero della sua storia così prematuramente conclusa.
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Bruno Breggion, pittore
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(dal catalogo della Mostra “Andreose scultore 1922 1987“, Gilberto Padovan Editore, 1993)
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