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Carlo Munari

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Alla fatale scadenza del Quarantacinque Danilo Andreose compiva ventitré anni. Poteva volgere lo sguardo all’indietro e controllare su quale tipo di cultura artistica aveva poggiato, se non la sua formazione, quanto meno l’educazione iniziale; poteva volgerlo al presente e controllare la pluralità di proposte che andavano ponendosi in un clima ormai dischiuso all’Europa.

Fra quel passato e il presente l’impatto era sto violento, un urto che non poteva non ingenerare il dubbio e il turbamento – la crisi. alcuni giovani di allora inconsapevolmente si autocondannarono alla perpetuazione di vecchi schemi ormai scontati; alle istanze sovrannazionali altri aderirono, ma acriticamente, scadendo in un ennesimo manierismo.

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In altro modo avvenne la maturazione di Andreose: certo evitando la compromissione novecentista ma subito esercitandosi in un’attenta riflessione critica dei fenomeni della contemporaneità. allo spirito d’avventura andreose antepose il vaglio meditato, la ricerca delle ragioni profonde di un’espressione formale, il confronto assiduo fra le aspirazioni proprie e le istanze altrui. Il suo procedere ebbe ad attuarsi così senza scarti, senza derivazioni di sorta: nel segno della coerenza interiore.

Se per un momento richiamo stagioni di trent’anni fa, è perché in esse già si delinea la personalità di Andreose, umana prima che creativa, ammesso che sia dato di disgiungere i due termini. Una personalità estranea al gesto clamoroso, ai recuperi disinvolti, alle rotture immotivate, la quale, per contro, privilegia l’opera come punto d’arrivo di un itinerario nitidamente perseguito, come graduale conquista di un non caduco obiettivo.

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L’interna logicità di quel percorso traspare manifesta riguardando le prove accumulate in un arco di tempo tanto vasto poiché, al di là delle individue soluzioni formali, riscontrabile ad ogni passo è la risoluta volontà di fare del congegno plastico un evento: di sottrarlo ad ogni tentazione narrativa e, insieme, ad ogni eventuale rischio di isterilimento formalistico.

Ciò avviene durante le fasi iniziali assorbite nella verifica delle fonti dell’astrattismo internazionale, quindi nel periodo in cui l’opera assume divise esplicitamente figurative, sospinte del resto verso un alto grado di semplificazione formale, mai di stilizzazione, e, successivamente, quando essa si libera in un sistema plastico ricavato sul filo di un rigoroso processo di astrazione.

Nell’un caso e nell’altro l’artista presiede al proprio agire con estrema lucidità d’intenzione: il contenuto deve calare nell’opera, in essa integrarsi – con essa deve coincidere. E’ nel coinvolgimento di ogni sforzo verso questo obiettivo che risiede la coerenza interiore cui s’è fatto cenno, la coerenza che ha innervato di sé una parabola operativa semplice all’apparenza ma in effetti composita per varietà di motivazioni e di stimoli. E’ la parabola che ha condotto Andreose dall’interpretazione del dato reale e fenomenico all’inquisizione della sfera dell’organico, ch’è poi il raggiungimento più alto della sua maturità.

Il rilevamento dell’organico non avviene dunque su desunzione intellettualistica, bensì in ragione diretta delle esperienze fino allora consumate: ne è anzi inevitabile filiazione.

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Infrangendo la maschera delle apparenze sensibili, Andreose può finalmente immergersi nel cuore segreto di una natura che da sempre lo ha coinvolto in un legame d’amore – e circuirne i segni apposti da un oscuro alfabeto, identificarne aggregazioni misteriose che diventeranno strutture, coglierne le interne dinamiche governate da un perenne flusso vitale, sarà questa natura, dispiegata in un divenire incessante, a farsi matrice di suggerimenti sempre nuovi e sollecitanti. onde l’artista s’adopera per fissare di volta in volta un frammento di vita organica riconosciuto attraverso l’osservazione attenta e liberato sul piano formale per la spinta di un’immaginazione creativa svariante dal turbamento del dramma panico alla quieta felicità dell’elegia.

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 volgere di siffatta operazione egli è ridisceso agli strati primigeni là dove il prodigio dell’esistere si manifesta nel rapporto elementare: l’unione dei semi, la fecondazione, la prolificazione. In quanto volta ad adombrare significazioni connesse all’Origine, l’opera che consegue annovera una inesausta dialettica fra elementi maschili ed elementi femminili, sia quand’essa si attua quale estensione spaziale di nuclei plastici in sviluppo, sia quando invece s’invera nel rigore strutturale di un sistema architettonico fondato essenzialmente sul postulato geometrico: giacché nella prima versione palese è il riferimento alla dinamica di un processo che contempla l’emersione della forma dal caos originario e il suo lento precisarsi vitalistico in concrezioni larvali, mentre nella seconda versione interviene come criterio operativo l’aspirazione a un ordine conchiuso, il raggiungimento cioè di un superiore dominio su energie contrastanti o disgreganti.

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Si tratta comunque di due soluzioni intimamente correlate, le quali del resto ripetono, a livello di messaggio, comuni analogie metaforiche.

Nel primo caso l’opera è, di consueto, caratterizzata da emisferoidi convessi cui fanno da riscontro emisferoidi cavi, sì da indicare l’imminenza di una congiunzione, le modalità della quale dipendono dalla loro stessa snodatura spaziale nonché dal connotato con cui si presentano, esaltante talora una fatale disponibilità mediate il continuum di un tessuto aggraziato per lucida levigatezza, sottintendente tal’altra una conflittualità eventuale mediante il tormentato trattamento di superfici ruvide, scabre ed erose. Nel secondo caso, invece, la massa plastica tende a scattare in verticale similmente a un menhir rivisitato con sensibilità tutta moderna, là dove il rapporto maschile-femminile si riverbera nel rigoroso gioco degli incastri, sui quali si stagliano, rilevati o incisi, i profili di dissepolti simboli solari: i simboli della continuità della vita. In tal modo l’opera si propone al nostro sguardo come un enigmatico, dilavato reperto, la pietrificazione di un antichissimo contenuto mitico.

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Si dovrà dire perciò, in conclusione, che l’agire alla fine appartato di Danilo Andreose è risultato proficuo avendo garantito esiti di sicura consistenza qualitativa, destinati, a mio giudizio, a inscriversi nelle zone feconde della scultura italiana d’oggi. Ma, sullo sfondo di queste opere, è dato altresì di individuare le stesse linee di ricerca di coloro che, come Andreose, sono i più consapevoli esponenti di una generazione che di certo ha avuto sorte non facile, posta in ombra dapprima dalle proposte della cosiddetta generazione di mezzo, verso le quali s’appuntava l’attenzione di quanti auspicavano un sostanziale rinnovamento dei linguaggi, e non sempre ricordata, adesso, quell’attenzione essendosi inevitabilmente spostata verso le problematiche poste dai più giovani. Affrontare con serietà la verifica globale della scultura di Andreose è dunque qualcosa di più che un semplice atto critico d’archivio: è una atto di giustizia, è riconferma della legittimità storica di un linguaggio.

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Carlo Munari, Critico d’Arte

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(Introduzione al catalogo della mostra di Danilo Andreose alla Galleria Pietra, Milano, 1975)

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